Racconti “incidenti di volo”

 

RACCONTI DI INCIDENTI DI VOLO

Questa sezione è dedicata a chi desidera raccontare la sua storia vissuta in un incidente o mancato incidente ma che potenzialmente poteva trasformarsi in tragedia. Lo scopo di questa sezione è quello di far conoscere a tutti i piloti le potenzialità di pericolo insite nel nostro sport,  così da poterle affrontare in sicurezza in occasioni future. Invito quindi tutti i piloti che hanno vissuto incidenti a mandarci la propria storia così che tutti possano trarne insegnamento.

Raccontare storie di incidenti risulta il metodo più efficace per fare Sicurezza Volo…non dimenticatelo.

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Quello che segue è il racconto di quanto vissuto da un nostro pilota del club in merito al suo incidente…leggete attentamente e traetene i giusti insegnamenti…Buona Lettura

1) L’INCONVENIENTE                                                                                                                                         (by Ruggero Condò)

Data: 16 marzo 2014

Luogo: decollo “IL PANETTONE” – nelle vicinanze di Calascio (AQ)

   Sono a terra, supino: ho un fortissimo dolore alla gamba sinistra. Provo a rialzarmi, ma ad ogni mio tentativo una scarica elettrica risale lungo il corpo per esplodermi nel cervello sotto forma di un lampo bianco. Ho la netta sensazione che vomiterò, e allo stesso tempo una grande voglia di abbandonarmi, di svenire. Sarebbe facile farlo: basterebbe mollare il filo che mi tiene legato alla coscienza e il dolore svanirebbe. Ma penso: se ho una frattura esposta, cosa molto probabile, potrei dissanguarmi. Meglio rimanere sveglio e chiamare i soccorsi. È a questo punto che mi accorgo che sono sul limitare di un terreno coltivato, proprio dove basse piante spinose si sostituiscono all’erba e ostacolano anche i più piccoli movimenti delle braccia. Benedico la mia abitudine di indossare la tuta anche quando fa caldo: senza la sua protezione ora soffrirei anche per i rovi. E sono contento di aver assicurato il microfono-altoparlante della radio su uno spallaccio dell’imbragatura, così riesco a raggiungerlo facilmente e a dare l’allarme. La mia  voce è rotta dal dolore, ma riesco comunque a comunicare la mia posizione. Mi viene chiesto se serve l’elicottero, ma io propendo per l’autoambulanza visto che sì, sono fuori campo, ma molto vicino all’atterraggio ufficiale e in un terreno costeggiato dalla strada. Le ricerche iniziano subito: sopra di me volteggiano gli amici e io riesco ad attribuire un nome ad ogni vela. Continuano a girarmi intorno ma non mi mi vedono perché la mia vela, di un bellissimo verde palma, si mimetizza con gli  arbusti e io, coperto dai rovi, sono nella linea d’ombra della vegetazione. Avviso tutti che non devono cercare una vela, ma un campo circondato da uliveti: il problema è che la zona è interamente coltivata, e con profitto, ad ulivo (e l’olio che se ne trae è anche rinomato), e di posti come il mio ce ne sono a centinaia. Comunque quello che potevo fare l’ho fatto e  i soccorsi prima o poi arriveranno, e così posso tranquillizzarmi e dedicare i pochi neuroni non impegnati a provare dolore per ricostruire l’accaduto. Mi ricordo solo che, per non avvicinarmi troppo a un albero, ho mandato la vela in stallo: non ero alto, mi sono preparato alla discesa e poi…quel dolore fortissimo e inspiegabile. Provo di nuovo a sollevarmi: se mi metto seduto forse riesco a vedere le condizioni della gamba. Magari riesco a fermare l’emorragia. È impossibile: basta solo l’intenzione di muovermi che il dolore, mai sopito, esploda in tutta la sua ferocia. Tutto sembra avere origine e fine nella mia gamba: anzi, ora non sono che la mia gamba. Devo avere pazienza e rimanere immobile, anche perché le vele colorate si avvicinano sempre di più: ora mi hanno visto. Le loro manovre sono impegnative, ci sono alberi e cavi telefonici a complicare le operazioni e penso che sarebbe preferibile che andassero ad atterrare presso un campo migliore per poi raggiungermi a piedi.  Ma gli amici piloti sono più veloci del mio pensiero: ecco Roberto, Fabrizio e poi il Capo e di seguito gli altri. Sono in tanti. Sono al mio fianco: c’è chi mi da da bere, chi mi slaccia la tuta, chi taglia i rovi che mi avvolgono. Mi dicono che vicino ai miei piedi sono stati rinvenuti due blocchi di cemento, di quelli da costruzione. Si inizia ad ipotizzare una dinamica dell’accaduto, ma la mia attenzione è ancora tutta concentrata sulla gamba. Agostino, il medico della compagnia, con estrema perizia la libera dagli indumenti  e scopre, con mio grande sollievo, che la frattura è brutta, scomposta ma non esposta. <La pelle ha retto>, mi dice sorridendo e poi, con una cinta stretta all’altezza della coscia provvede a regolare l’afflusso di sangue, onde evitare ematomi e altri simili accidenti.  Il dolore c’è sempre, intenso e continuo, ma ora lo sopporto con ottimismo, tanto più che l’autoambulanza è partita e sta per arrivare. Nel frattempo ci facciamo una foto tutti insieme e riesco anche a sorridere. Sono sollevato, sia nell’umore che nel fisico, anche perché sono arrivati il medico e i paramedici del 118 che mi immobilizzano l’arto e mi issano sulla barella. Non mi dilungo sul seguito, cioè sulla tortura dello sterrato e le mille curve della statale, sull’arrivo in ospedale e la complessa procedura di soccorso con la prima visita, le indagini radiologiche, la dolorosa riduzione manuale delle frattura e la messa in trazione della gamba, per arrivare subito alla diagnosi ufficiale: frattura spiroide del terzo distale di tibia e perone.  Il radiologo mi conferma che il tipo di frattura, visto la forma e il sito coinvolto, è quello che di solito si riscontra a causa di una brusca rotazione della gamba: sarebbe potuto accadere anche semplicemente camminando. La cosa non mi consola. Gli amici e i piloti iniziano a parlare di sfortuna, del fatto che ho poggiato il piede proprio sul blocchetto di cemento e che bastava atterrare 10 cm più avanti per scamparla. E poi, che ci facevano quei blocchi in mezzo ad un campo coltivato? Chi avrebbe potuto mai prevedere una cosa simile? Io li ringrazio delle considerazioni, ma affermo di non essere d’accordo. La causa dell’incidente non va individuata nel blocco di cemento, che tra l’altro aveva tutto il diritto di stare lì, ma nelle mie scelte sbagliate. Ne sono convinto, e penso che una volta che avrò ricostruito tutta la dinamica dell’evento, lo sarete anche voi.

    Dunque partiamo dall’inizio. È la domenica successiva alle idi di marzo e la leggera velatura in quota non riesce ad opacizzare del tutto l’azzurro premonitore della bella stagione. La temperatura è mite e i piloti sono saliti sul decollo di Calascio già dalla prima mattina. I voli sono iniziati alle undici e, nonostante la qualità dei piloti in volo, dopo più di un’ora nessuno è riuscito a fare quota. Si galleggia, niente di più. Io mi stacco da terra verso le 13 e mi metto subito alla ricerca di qualche termica. Trovo solo piccole bolle che mi consentono di rimanere in volo, ma la giornata si preannuncia debole e la prospettiva è quella di scendere a valle, anche se lentamente. Dopo circa 40 minuti di saliscendi e quando sono ormai sfiduciato, nei pressi di una collina riesco a trovare una debole ascendenza. Salgo, ma i piloti che si trovavano alla mia stessa quota, circa 200m da quella dell’atterraggio, rinunciano e si dirigono verso la piana. Io insisto, ma dopo parecchi giri non ho che poche decine di metri in più: in compenso ho acquistato fiducia nelle mie capacità. Sono contento della mia sensibilità, della capacità di sfruttare anche le minime ascendenze, del mio pilotaggio preciso ed elegante. Mi sento un pilota! Anzi un bravo pilota, e sono così convinto delle mie possibilità, che decido che non mi accontenterò di rimanere lì e che investirò quel piccolo guadagno di quota per esplorare anche il costone di sinistra, da noi per misteriose ragioni chiamato “svergolo“. Mentre finisco l’ultimo giro in termica e mi preparo ad affrontare il tragitto che mi separa dalla probabile risalita do un’occhiata alla situazione in basso. Non ci sono atterraggi, ma la cosa sembra poco interessante. Io non ho bisogno di atterraggi, ma di ascendenze con cui rifare quota e finire il volo con un bel top landing. Senza esitazione punto la vela verso il costone e dopo poco lo raggiungo. Ho perso circa 100m, la metà del mio capitale. Ormai l’atterraggio ufficiale, con la sua promessa di serenità, non è più alla mia portata. Devo assolutamente trovare qualcosa per risalire. Guardo in alto. La copertura è aumentata e il cielo non è più azzurro ma di un colore lattiginoso. Il motore dell’attività termica si sta inesorabilmente spegnendo e con esso la capacità di galleggiamento del mio parapendio: mi trovo sotto un En C di alta gamma, efficienza superiore a 10, ma non è abbastanza per raggiungere la tranquillità dell’atterraggio ufficiale. Non basterebbe un aliante. Già vedo la chioma degli ulivi avvicinarsi, e si sa che gli ulivi non sono famosi per la loro altezza. In prospettiva noto due linee elettriche che si intersecano con un angolo di circa 120° e vanno a chiudere le mie possibilità di fuga verso sud. A pochi metri da me un cavo telefonico fissa l’asticella che dovrò superare per guadagnarmi l’accesso all’unico possibile spazio libero, un parallelepipedo erboso incorniciato dagli alberi. Ma prima ho un’ulteriore scelta da fare: vista la direzione della linea telefonica devo decidere se puntare verso la parte più aperta del terreno, ma rischiare di trovarmi troppo basso per superare la linea telefonica, oppure dirigermi verso la zona arbustiva e più complicata, dove però incontrerò prima il cavo e quindi con una quota maggiore. Decido per la seconda opzione: le linee aeree spaventano di più della vegetazione. Traguardo il terreno prescelto: un intervallo accogliente tra le minacce arboree e tecnologiche. Quella sarà la mia pista. Cerco la posizione dei comandi sulla massima efficienza: li tengo appena pizzicati per sentire le informazioni sull’aria ed essere pronto alle correzioni. Riesco a passare il cavo telefonico, supero gli arbusti e mi preparo per entrare nel campo. Sono fiducioso, abbastanza alto da dover impostare una esse per smaltire gli ultimi metri e quando sono ormai in posizione una chiusura asimmetrica mi sorprende. È la semiala sinistra: io cerco di mantenere la  traiettoria  operando una repentina azione sul freno di destra. Forse troppo repentina ed efficace, o forse sono troppo vicino a terra e anche i piccoli aggiustamenti mi sembrano enormi. Fatto sta che, il parapendio, invece di continuare dritto, vira a destra, rallenta troppo e io non ho più margini per apportare modifiche: sto per finire sugli ulivi. È incredibile: questi alberi stanno dappertutto! Decido di anticipare lo stallo: sono a circa due metri da terra, ma i miei piedi fortunatamente puntano sul morbido. C’è suolo agricolo che mi aspetta e, mentre scendo come un semplice grave e la vela si impacchetta su un cespuglio, penso: anche questa volta ce l’hai fatta!

   Conclusione: Il piede destro finisce, come previsto, su soffice terreno e gioisce per il ritorno alla madre Terra;   il sinistro poggia invece su un blocco da costruzione, per di più instabile, che sotto il peso si muove, trascinando con sé tutto l’arto in una imprevedibile e violenta rotazione. Risultato: doppia frattura spiroide. Quel giorno solo spiroidi, niente spirali!  Mentre il resto del corpo giace su basse e insidiose piante spinose, io penso che la causa dell’incidente non va cercata nella presenza del blocco, ma nella serie di scelte sbagliate che mi hanno portato fuori campo. Innanzi tutto ho sopravvalutato le mie capacità: sono bastati 40 minuti di galleggiamento sul debole per montarmi la testa. Con pochissimi margini mi sono avventurato in una zona senza atterraggi alla ricerca di termiche che sapevo improbabili, visto l’andamento della giornata:  confidavo nelle mia sensibilità e nel mio pilotaggio e pensavo che  la fortuna mi avrebbe aiutato. Forse aiuta gli audaci, ma non lo fa andando contro le leggi della fisica, e nel mio caso la fisica parlava chiaro. E io, invece di seguire l’istinto, la razionalità e l’esperienza, sono andato dietro un’immagine di me che non corrispondeva alla realtà. Ho sopravvalutato le mie capacità e sottovalutato i rischi, pur avendo ben chiara la situazione meteo e conoscendo il posto. Il resto è una diretta e dolorosa conseguenza del mio comportamento.

   Ora è passato un anno e ne scrivo con distacco, ma dentro di me ho ancora la stessa convinzione unita ad un mezzo di osteosintesi endomidollare in titanio che attraversa la tibia sinistra in tutta la sua lunghezza.

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2) INCIDENTE QUASI MORTALE                                                        (By Roberto Intilangelo)

Data: 30 gennaio 2000

Luogo: decollo “IL PANETTONE” – nelle vicinanze di Calascio (AQ)

E’ inverno e come al solito penso al  fine settimana, in particolare sono indeciso se andare a sciare o andare a volare. Visto che la neve scesa giù non era molta, decido di andare a volare in parapendio con gli amici. Ci ritroviamo sul decollo, che si trova nei pressi di Calascio, da noi chiamato “Il panettone” per via della sua forma tondeggiante. Ci prepariamo e uno dopo l’altro andiamo in volo.

Siamo un bel gruppetto oltre a noi parapendisti ci sono anche alcuni deltaplanisti.

Il mio volo si rivela  una desolante planata, però,  sempre meglio di niente, ritorno sul decollo per fare una seconda planata, mi preparo di nuovo e …

Mi risveglio dopo una settimana circa nel reparto di Rianimazione dell’ospedale  de L’Aquila. Rimango lì per diversi giorni e quando mi hanno dichiarato fuori pericolo, parlando con gli amici che mi erano venuti a trovare ho saputo finalmente cosa mi era accaduto (chiusura asimmetrica non controllata che successivamente si è trasformata in spirale ad un’altezza dal suolo di circa 60/70 metri e quindi impatto al suolo, quindi, 118, elicottero ed ospedale).

Nell’incidente riportai la frattura del bacino, la frattura dell’omero destro, la frattura della mandibola, le fratture di alcune costole, un pneumo-torace, un trauma cranico e diverse emoraggie interne.

La cosa che più mi ha angosciato di tutto questo è stato il fatto di non ricordare assolutamente niente dell’incidente.

Poiché a gennaio non ci sono turbolenze o termiche tali da provocare grosse chiusure, credo che quel giorno ero alquanto distratto nel momento in cui ne ho presa una.

Credo che ora sarò sempre concentrato al massimo, sia in estate che in inverno.

Approfitto per salutare tutti gli amici che mi hanno soccorso e mi sono stati vicini dopo l’incidente affinché io potessi ritornare a volare, GRAZIE A TUTTI.

P.S. Nel  29 luglio 2001 sono finalmente ritornato a volare.